Internet, nuovi media e filologia

Daniele GigliBlog, OverlookLeave a Comment

Filologia e informatica

Quale testo per quale memoria?

Internet, nuovi media e filologia

 

La memoria, dunque. Perché resta, al netto di tutti gli svuotamenti possibili, l’idea che l’atto di comunicare non possa in sé essere un contenuto, ma che voglia e debba trasmetterne uno. E se ciò è abbastanza pacifico nella nostra esperienza con i media tradizionali – dalla lettera manoscritta, al quotidiano stampato – già l’ingresso massiccio di radio e televisione nelle nostre case, è ormai qualche decennio, ha messo in discussione questa lettura delle cose. Che cosa succede, infatti, quando accendiamo la tv e «conversiamo» informalmente con le immagini e i suoni che lo schermo ci invia? Che cosa, se non riprodurre in casa nostra quel fenomeno di socialità per cui una parola – pur trasmessa e pur registrabile – nasce in realtà senza la pretesa di essere memorizzata e conservata?
È un’invasione dello spazio esterno e sociale in quello interno e familiare (nel nostro paese ne ha molto discusso tra gli altri Enrico Menduni, che presto incontreremo). Un’invasione che da un lato decostruisce la percezione che un medium debba trasmettere un messaggio, ma dall’altro conserva una unidirezionalità e una gerarchia tra emittente e ricevente che consente di perpetrare la convinzione che ci sia un messaggio dato – una «verità», la chiamerà Cesare Segre in Ritorno alla critica (2001) – trasmissibile senza corruzioni e interferenze da un soggetto emittente, produttore, a uno ricevente, e conservatore.
Come mai un filologo del calibro di Segre entra nel nostro discorso? Perché tv e radio condividono appunto con gli altri media tradizionali l’unidirezionalità e la – relativa, come le teorie della ricezione ci avvertono – non influenzabilità del contenuto da parte del ricevente. Due caratteristiche che i nuovi media, i social network su tutti, hanno invece fatto saltare, ingenerando un paradosso testuale che per un verso assimila lo scritto ai così detti media a flusso (quanti di noi, scrivendo un messaggio Whatsapp, un sms, un commento su Facebook o un intervento in un forum pensano realmente di stare scrivendo qualcosa che resterà?), ma per l’altro ingenera nuove modalità di condividere e conservare, come ci aveva suggerito tempo fa Angela Maiello. La condivisione via social diventa, in quest’ottica, la protocollazione dell’evento postato all’interno del nostro personale archivio.

Ecco allora che – se è vero che, cacciata dalla porta, l’idea di un contenuto «originale» e validato dall’autore rientra prepotentemente dalla finestra dei social – anche quella che sembrerebbe una branca degli studi sulla letteratura diventa, o meglio ridiventa, una pratica di interpretazione del rapporto tra pensiero, testo, circolazione del sapere e società. Parliamo della filologia, in quella particolare declinazione che negli ultimi due decenni almeno ha preso il nome di filologia digitale.
Perché la filologia interseca le nuove forme di comunicazione? Intanto perché porta con sé tutte le questioni metodologiche che – si considerino risolte o meno – negli ultimi sessant’anni almeno ne hanno costituito i dibattiti. Qual è lo statuto del testo? Chi è l’autore, o persino: esiste un autore? E in entrambi i casi, qual è allora il rapporto di responsabilità intellettuale (e morale) tra le due o più figure che intervengono? Un post di Facebook con centinaia di commenti ha un autore? Se sì, chi è, o chi sono? E se l’Autorità – in questo caso Facebook – interviene bannando uno dei partecipanti e modificando quindi la leggibilità della sequenza, o se persino chiude l’account dell’estensore, impedendo ad altri di continuare a contribuire con i loro interventi, chi è l’autore? Chi il destinatario? Chi l’editore? A chi e in che modo la responsabilità della produzione del testo e, con esso, del senso?

Torniamo come sempre al rapporto tra oralità, scrittura e nuova oralità che contraddistingue la civiltà occidentale. Nuova comunicazione per nuove forme, nuove forme per nuovi contenuti. La comunicazione contemporanea, più che la produzione di un senso, sembra incarnare la descrizione di un processo. In questo contesto, quali esigenze persistono, quali invecchiano e muoiono?
Per chi e perché scrivere, oggi, e come farlo? E cosa conservare, cosa tramandare? A quale esigenza viene incontro la proliferazione verbale e visiva che la diffusione capillare di internet sembra aver fatto emergere? Che cosa chiediamo, oggi, all’atto comunicativo?

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