Intervista a Giuliano Gaia

Daniele GigliInterview, Overlook2 Comments

Intervista a Giuliano Gaia

L’industrializzazione della memoria

Giuliano Gaia ci parla di conservazione oggi, nell’epoca della condivisione e della comunicazione di massa.

 

È sempre interessante, quando si incontrano professionisti e imprenditori, esplorare l’intreccio tra gli studi fatti e l’esperienza professionale. Rintracciare tra le righe, insomma, quel legame oggi spesso negato tra educazione e formazione umanistica, prima che tecnica, e capacità di lettura e di intervento sulla realtà.
Ed essendo così interessante, siamo tanto più fortunati di poter incontrare Giuliano Gaia, professionista brillante, co-fondatore di InvisibleStudio e docente a contratto presso lo Iulm di Milano. Fortunati perché emerge la figura di un professionista dal pensiero forte; e perché, da una chiacchierata così, non possono che venir fuori idee e riflessioni interessanti per chi abbia a cuore il patrimonio culturale e la sua valorizzazione.

Giuliano, la tua esperienza professionale ti ha portato a insegnare materie come “Sistemi di archiviazione digitale per l’arte” e “Comunicazione digitale per le arti”. Che nesso c’è, se c’è, tra la pratica della comunicazione e quella dell’archiviazione?

Il nesso è molto vivo e forte, soprattutto riguardo alla scena museale, che è quella cui il mio corso fa riferimento. Un museo, infatti, da sempre è sia un deposito di oggetti, sia un luogo di comunicazione degli stessi. Perciò al suo interno conservazione e comunicazione devono convivere e nel digitale questi due aspetti si integrano perfettamente.

In che modo?

Beh, il digitale facilita molto sia la conservazione dell’oggetto artistico, sia la sua comunicazione. E questo nesso permette di esplorare diverse possibilità che fino ad oggi sono rimaste in ombra: penso, per esempio, al rapporto tra l’oggetto, la sua forma di archiviazione digitale nel museo e quell’archiviazione più vasta che sono i social. In questa direzione, un esperimento interessante è quello del San Francisco Museum of Modern Art, il cui motore di ricerca restituisce non soltanto la descrizione scientifica dell’oggetto ricercato, ma anche commenti degli utenti, pescandoli sia da fonti interne al sito che da fonti esterne.

Un interessante libretto di una giovane filosofa intervistata di recente, Angela Maiello, sostiene che il mondo digitale abbia fatto emergere la condivisione come momento di esternalizzazione della memoria. Condividere, perciò, diventa il modo principale di archiviare, di conservare i nostri interessi. Questa visione, condivisibile per molti aspetti, non rischia tuttavia di tralasciare l’aspetto sistemico della conservazione e di sminuire – data la relativa immediatezza della condivisione – il momento riflessivo e selettivo che ogni conservazione richiede?

Credo di sì, ma francamente non sono troppo preoccupato in merito. Del resto sappiamo che nessun pasto è gratis – pensiamo soltanto alle ricchezze della cultura orale che sono andate perse con l’invenzione della scrittura. Quello che mi preoccupa sul serio, invece, è che per la prima volta nella storia la conservazione si pone all’interno di un sistema industriale: c’è oggi una vera industrializzazione della memoria, che è un pericolo e una sfida.

 Puoi spiegarci meglio?

Da quando c’è la storia i rapporti tra le persone e i loro ricordi sono stati affidati a documenti scritti, memoriali, veri e propri diari personali… Quello che fino a oggi non era mai successo, però, è che questi dati fossero non solo ricercabili e interrogabili, ma persino che fossero posseduti da poche aziende.

 Un aspetto di questa industrializzazione della memoria è già intuibile, forse, nella standardizzazione data dai campi predeterminati dei post, che ne “indirizzano” facilmente la stessa stesura.

In un certo senso sì, ma quello della standardizzazione non è un fenomeno del tutto nuovo. Pensiamo, per dirne una, alle dame del Settecento che amavano fare acquerelli: amavano farli, certo, ma il fatto che li facessero era anche una “necessità” sociale… La vera novità, oggi, è l’emergere di attori industriali che hanno una facoltà di accesso ai nostri dati senza alcun precedente nella storia. E che oltre all’accesso ai dati, hanno una potenzialità spaventosa di aggregarli! Il che è forse interessante dal punto di vista sociologico, se pensiamo a che analisi raffinatissime possiamo fare, ma anche inquietante.

 Perché sottolinei l’aggregabilità dei dati più del loro possesso?

Perché l’aggregabilità rende possibile una visione d’insieme che mai nessuno ha potuto sognare. Mi spiego. Prima del digitale, se anche uno stato totalitario avesse costretto i propri cittadini a conferire tutti i diari in un grande archivio centrale, avrebbe dovuto destinare a questo archivio un certo numero di impiegati, ognuno con un numero di ore di lavoro limitato… Insomma, gli agenti del sistema avrebbero comunque avuto una visione parziale. La possibilità di ricercare e aggregare automaticamente i dati, invece, supera questa parzialità “obbligata” e ci apre un territorio completamente inesplorato.

In positivo, facevi cenno alle possibilità di analisi (sociologiche, di mercato, politiche) offerte dalla sempre più raffinata aggregabilità dei dati. Ma, parafrasando il T.S. Eliot che parla di “parole sempre più raffinate per esprimere sentimenti sempre più rozzi”, non è che la “quantizzazione” crescente dei comportamenti umani, la sua parcellizzazione in unità numerabili, invece di aiutare l’analisi, la renda più fallace? Come si può ridurre il giudizio umano sui dati di realtà a una battaglia di numeri? 

Sono d’accordissimo, al punto che uno dei progetti più interessanti a cui sto lavorando va proprio in questa direzione. È un progetto che io e la mia socia stiamo conducendo con il Museo Egizio di Torino di formazione del personale al design thinking. Il museo, come molti altri, fa già da tempo una serie di rilevazioni e analisi quantitative sui visitatori, ma noi con il nostro training li stiamo spingendo a entrare in un rapporto empatico con il pubblico. Con un numero ridotto di visitatori, ovvio: ma fosse anche uno solo, entrare in questo tipo di rapporto è di estrema importanza per trovare soluzioni e migliorie. Né è utile demandarlo a un focus group gestito da terzi cui il personale non partecipa o che vede dall’esterno, perché non è più un rapporto. Le analisi quantitative possono dare delle indicazioni sugli aspetti da valutare e migliorare, ma non possono dire come farlo… Sono come le spie del motore: si accendono e ti dicono che qualcosa non va, ma per capire come ripararlo devi aprire il cofano!

Arriviamo di nuovo al rapporto tra archiviazione e condivisione di un’esperienza. Si parla molto, tra archivisti, di come – e se – conservare il web. Ma se innegabilmente negli ultimi anni la riflessione comune tanto ha portato sia sul piano teorico, sia sul piano tecnico, quel che talvolta tuttavia rischia di perdersi è l’obbiettivo. Torniamo perciò alla sua attività didattica: perché archiviare l’arte? Con quale fine?

Il web è ormai un universo: va da sé, quindi che se ne possano conservare solo delle parti. Avendo lavorato per tanti anni nel web, sono sempre un po’ stranito, da quanto il digitale sia strutturalmente effimero… Faccio un esempio: nel nostro studio abbiamo passato anni  a costruire con la massima cura siti web e applicazioni digitali che di fatto oggi non esistono più. Questo significa lavorare nella strutturale impermanenza e dal punto di vista personale e umano può essere un po’ pesante. D’altro canto è quasi inevitabile. Anzi, alcuni social – Snapchat, per esempio – puntano a un’istantaneità assoluta; e in verità tutti i sistemi stanno andando in direzione opposta rispetto all’archiviazione. Quanto invece ad archiviare l’arte, credo che sia non solo un modo di salvarla, ma di comunicarla e permettere intrecci e link. E nel creare link, il digitale è maestro.

Questo se parliamo di arte analogica archiviata digitalmente. Riguardo all’arte nativa digitale, invece?

L’arte digitale va archiviata in quanto arte. Con tutti i problemi di conservazione e fruizione che ciò comporta e che sono analoghi all’archiviazione della performance o del teatro. Come salviamo una performance o uno spettacolo, con dei video che li mostrano? È un’esperienza estetica diversa. A un corso della Tate Gallery cui sono stato di recente ci è stato detto, per esempio, che loro di una performance comprano solo le istruzioni per realizzarla! E in effetti non è un discorso fuori luogo. Come fai a comprare e conservare una performance? È difficile lo statuto stesso di possesso di alcune forme d’arte!

Similmente tanto l’arte digitale quanto l’arte analogica archiviata digitalmente, pongono problemi di reale restituzione dell’esperienza. Pensiamo al primo Star Wars e ai suoi effetti speciali. Magnifici e funzionanti nella versione originale, adatti alla qualità di ripresa e alla grana di pellicola usata, e ridicoli, quasi grotteschi nella versione restaurata in HD. Ma la colpa non è di chi ha girato l’originale, la colpa è il restituire una tecnologia con una più avanzata. È come mettere una lente d’ingrandimento sul viso di una bellissima donna: anche lei avrà delle imperfezioni che a distanza naturale non si vedono!

Restando sul piano più prettamente tecnologico, quali sono oggi le soluzioni di conservazione e di fruizione a tuo parere più promettenti, più in grado di rispondere alle questioni che hai appena messo in campo?

 Per parlare di tecnologie calde, sicuramente Realtà Virtuale (VR) e Realtà Aumentata (AR) possono aiutare molto nella ricostruzione del contesto perduto degli oggetti. I musei, come sappiamo, sono cimiteri di oggetti decontestualizzati, aggregati di scaglie di significati più ampi. Poter “rivivere” il deserto in cui correva una moto della Seconda Guerra Mondiale, o approfondire il significato di una pennellata o dell’utilizzo di una data modella in riferimento alla vita dell’autore, è senz’altro utile sul piano didattico e coinvolgente dal punto di vista emotivo.
Personalmente, però, trovo più interessante la convergenza di tutte le tecnologie verso una modifica del rapporto con il visitatore. Credo infatti che il museo si appresti a diventare una macchina ibrida, in cui tutti i punti di contatto col visitatore siano gestiti centralmente da un “cervello” che oltre a regolare automaticamente la temperatura di sala in sala, misura le competenze, osserva le pause, indaga i social, permette la condivisione, si adatta dinamicamente a gusti e aspettative, offre risposte personalizzate. Un museo “liquido”, insomma, capace di adattarsi dinamicamente al visitatore, come proposto di recente in un articolo scritto con la mia socia Stefania Boiano.

Nel tuo corso si fa riferimento anche alla software culture e alla remix culture che sembrano ormai costituire l’alveo naturale della cultura contemporanea. Tu come ti poni in merito? Trovi esaustiva l’opposizione tra la read only culture e la read-write culture che diversi studiosi teorizzano? E se sì, una volta di più viene da chiedersi: a qual fine e in che modo archiviare il digitale e quella rete che ne è il più naturale canale di diffusione?

Sì, credo che almeno su un piano elementare le definizioni siano esaustive, e che quella in cui viviamo si possa definire una read-write culture. Mi sembra evidente, infatti, che la nostra società sia molto imperniata su un processo continuo di assorbimento e restituzione. Quello che forse è meno scontato, è che a mio parere la parte creativa è molto ridotta… Penso che ci sia molta retorica sulla creatività umana e che la creatività in senso stretto – scrivere cose nuove, reinterpretare cose nuove – sia appannaggio di una piccola percentuale dell’umanità. Intendiamoci: la parte di “scrittura” è sempre una parte importante di personalizzazione, ma non è detto, anzi, che sia particolarmente creativa. È sempre significativa per l’utente, per la sua coscienza e reinterpretazione dell’esperienza che fa dell’oggetto culturale; ma non è detto affatto che sia così creativa da essere interessante per un terzo. Ricordo di un amico che offriva un servizio di personalizzazione di magliette… Quando mise sul sito una serie di frasi e loghi predefiniti, la stragrande maggioranza dei suoi clienti si indirizzò verso tali opzioni, rinunciando a una personalizzazione propria e singolare. Questo è un episodio che ci fa intuire come – anche in una cultura di condivisione e di espressività diffusa come la nostra – la componente creativa del soggetto resti più indirizzata all’appropriazione di un oggetto dato, che non alla creazione di una novità davvero forte.

 Usando una metafora ciclistica, più attenti a restare nel gruppo della maglia rosa che ad andare in fuga, insomma?

Qualcosa del genere.

 In fondo è la solita, antica storia del consesso umano, forse…

Sì, forse sì. Ma mi sembra che fino ad oggi non sia andata così male. In fondo la maglia rosa è una, ma è bello che tutti arrivino al traguardo!

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