Intervista a Enrico Menduni

Daniele GigliInterview, OverlookLeave a Comment

Intervista a Enrico Menduni

«Medium è chi il medium fa»:

Enrico Menduni e il neorealismo dei social

 

Come introdurre Enrico Menduni a chi non lo conosce? Studioso dei media, indagatore curioso, docente-allenatore, secondo la sua stessa definizione, Enrico Menduni è già adesso un pezzo della storia televisiva italiana, se è vero che tra i non pochi suoi meriti figurano una precocissima esperienza nel Consiglio di Amministrazione della Rai e l’assegnazione della fortunata formula «tv-verità» alla Rai3 di Angelo Guglielmi, interlocutrice imprescindibile ancora oggi di qualsiasi programma “per la gente”.
Incontrandolo, abbiamo voluto perciò ripercorrere alcuni luoghi fondanti della sua analisi dei media radiotelevisivi, chiedendoci o meglio chiedendo a lui, dove tali concetti e categorie potessero attagliarsi anche al mondo della comunicazione on-line: dal web «classico», alle sue declinazioni più estreme e contemporanee come i social network e gli altri strumenti di condivisione. Una chiacchierata schietta e non priva di asperità che speriamo vi appassioni come ha appassionato noi.

Professore, il primo concetto che ci ha interessati studiandola è quello di «media a flusso», che se abbiamo ben inteso si riferisce all’insieme del palinsesto radiotelevisivo e alla sua funzione intrattenitrice, l’idea per cui ci vien da dire «sto guardando la TV» e non «sto guardando quel tale film». Per analogia, viene facile pensare al feed di Facebook costantemente aggiornato con nuove notizie, o alla continuità di esperienza in-line e off-line per cui, in fondo, che si sia per strada, a tavola, alla guida o in camera propria a leggere, il flusso sta sempre lì e in qualche modo, ci intrattiene. Ma al di là dell’accostamento forse un po’ azzardato, quali sono secondo lei le reali analogie e le reali differenze tra i due media?

Le analogie ci sono e non sono poche, anche se bisogna chiarire meglio termini e sviluppi. L’inventore di questa definizione fu Raymond Williams, che di mestiere faceva il critico letterario, ma che forse anche perciò elaborò un approccio capace di nutrire una generazione di studiosi. Ora, che cosa caratterizza secondo Williams questa tipologia di media? Anzitutto la loro tendenza a una testualità “sbriciolata”. In Italia, il fatto che ci fosse una tv di servizio pubblico con una vocazione pedagogica, programmi nettamente staccati gli uni dagli altri, con una annunciatrice a dire «tra poco vedrete, ascolterete, ecc.», ha fatto sì che questa prospettiva si realizzasse pienamente solo con la tv commerciale. Con la tv commerciale prende piede una sorta di frullatore in cui entrano frammenti testuali disparati ma concepiti in modo da cooptare il massimo numero e la massima varietà di spettatori.

 Cosa cambia nell’esperienza comune di fruizione il passare da un tipo di palinsesto all’altro?

Che nel secondo caso i contenuti vengono fruiti in modo completamente a-testuale, per cui uno torna a casa e accende la tv così come potrebbe accendere il caminetto, il riscaldamento, la luce… e trova ad aspettarlo un flusso che scorre finché non decida di “chiudere il rubinetto”. E attenzione, perché il flusso, oltre a essere nel palinsesto del singolo canale, viene rinforzato dalla possibilità dello zapping, o dal fatto che uno nel frattempo si alzi e faccia altro, innaffi le piante, controlli la mail…

 Williams scriveva queste cose nel 1974, e lei ce le presenta come ancora valide nell’edizione italiana ai suoi scritti del 2000. Passati altri vent’anni scarsi, che cosa resta e che cosa si è ormai perduto del suo approccio alla questione?

Beh, resta molto, anche se occorre fare alcuni caveat. Su tutti, il cambiamento profondo dell’offerta televisiva, per cui – rispetto a quella descritta da Williams e da me – la tv di oggi è molto più simile a un pandoro a tre strati. Alla base abbiamo la tv generalista, che segue ancora quelle regole. In mezzo, con un pubblico più ristretto, c’è la pay per view (Sky, Premium), che in cambio di un pagamento recupera una testualità molto forte. Pensiamoci: una partita di calcio o una fiction seriale sono l’esatto opposto del flusso, hanno un inizio, una fine, dei tempi e delle strutture molto ben definite. Infine, alla punta del nostro pandoro, c’è il video on demand (Infinity, SkyGo, Netflix), in cui l’elemento palinsestuale scompare del tutto e c’è una completa scelta dell’utente – una televisione à la carte.

 Quanto si può assimilare questa tv-pandoro e ciò che resta del concetto di flusso alla struttura e all’esperienza del web?

Il web è un flusso? Sì e no. C’è un elemento randomico, il fatto che io venga attratto da un link e poi da un altro e un altro… ma c’è un elemento di ricerca del contenuto che, almeno al momento, nella tv non c’è. Non c’è un motore di ricerca dei contenuti televisivi. Non so se ci sarà mai, tecnicamente è quasi possibile, ma non so se ci sarà mai. Non saprei quanto possa essere apprezzato dagli spettatori, non ci ho mai pensato prima d’ora.

Non potrebbe essere un terreno di incontro tra la guida tv e Youtube?

Direi di no, perché tutte le guide tv mostrano dei titoli, non dei temi. Ci vorrebbe una taggatura dei contenuti imponente, una sorta di schedatura inquadratura per inquadratura che al momento è quasi fantascienza, per quanto possa essere interessante.
E però vero che la tv sta diventando un motore di ricerca di titoli: cerco un tal film raro su internet e trovo prima proposte di dvd, o brani a bassa definizione su Youtube, ecc. È chiaro che questo bricolage di chi va a cercare libri rari in biblioteca non è flusso ed è vero che ognuno di noi alterna momenti di flusso a momenti estremamente testuali. Inoltre, è chiaro che quando si paga si pretende proprio “quella determinata cosa” e in questo modo il pagamento fa assomigliare la tv alla biblioteca, per cui non si cerca “qualcosa da leggere”, ma proprio quel libro che per qualche strana ragione desideriamo.

Quindi c’è un nesso tra il ritorno alla testualità e la non gratuità del prodotto?

Sì, senz’altro. È un po’ la differenza che corre tra andare alla sagra di paese e ordinare un piatto di tartufo bianco in un ristorante di lusso.

Tornando all’analogia con web e social: c’è analogia per l’elemento di flusso, ma distanza per l’aspetto di ricerca di contenuto. Quindi forse il web assomiglia all’intera torta a tre strati…

Esattamente.

A questo proposito, viene da pensare al mito dell’open access, del poter avere informazione e servizi totalmente gratuiti. Ma il fatto di cedere frotte di dati, gusti e abitudini agli estensori dei servizi non è una sorta di pagamento? E non è un pagamento meno consapevole di quello che possiamo riservare ai servizi come Netflix o altri a cui in modo esplicito ci abboniamo e versiamo un corrispettivo?

Sì, anche se non va dimenticato che in realtà a Netflix lei dà sia i soldi che i metadati. E il tipico caso in cui il fornitore del servizio ha sia la botte piena che la moglie ubriaca!

Un’altra espressione molto interessante, da lei usata in riferimento alla funzione delle fiction rispetto al pubblico, è quello di «mondi persistenti», di un’esperienza cioè più complessa dello spettacolo teatrale o cinematografico, che sono ben definiti sul piano delle unità di luogo e di tempo. Anche qui vengono subito in mente i social, ma anche gli esperimenti sempre più diffusi, nella fruizione dei beni culturali, di esperienze «immersive», mirate alla multisensorialità e – come ancora dice della fiction – a un patto di fedeltà. Le chiediamo di nuovo: quali analogie e quali differenze tra questi due tipi di fenomeni? La categoria di «mondo persistente» che cosa ha da dire rispetto ai secondi?

Anche in questo caso c’è un’analogia non banale tra i due approcci, soprattutto nel desiderio di lanciare un’esperienza complessa che sostanzialmente tenga l’ascoltatore o lo spettatore ben connesso a te, collegato, fidelizzato, in maniera tale che continui a comprare le cose che gli offri.

Tagliando con l’accetta, si può dire che è come se il Louvre oggi più che interessato a mostrarmi la Gioconda, sia interessato a propormi un patto di fedeltà, o meglio di fiducia, con l’istituzione-museo?

Sì, ed è una strada su cui moltissimi si sono già incamminati. Anche perché ormai c’è una tale offerta di forme di intrattenimento per cui la risorsa scarsa è diventata proprio l’attenzione delle persone. E siccome quest’attenzione non è affatto facile conquistarsela, bisogna mettere in campo delle strategie di fidelizzazione.

Viene da chiedersi, come il vecchio Benjamin, se così facendo non si proponga tuttavia un’esperienza estetica diversa. Se schiaccio il dipinto con tutta una serie di contorni, non finisco con l’ottenere attenzione per un’esperienza estetica diversa da quella che l’opera intendeva offrire?

Questo può anche essere, ma in fondo io e lei che ne sappiamo del perché uno va a vedere Caravaggio? Non si può postulare che uno vada a vedere Caravaggio per gli stessi motivi per cui ci andiamo io o lei. Si rischia una pretesa pedagogica, il presumere di sapere perché uno debba o voglia vedere Caravaggio.
Certe volte noi ci facciamo delle modellizzazioni delle motivazioni altrui, dimenticando anche le nostre. A tutti quelli che dicono “tradimento, tradimento”, e che ogni volta lamentano come il fare questa o quest’altra cosa significhi “tradire il Louvre”, io dico: intanto che la gente ci vada, che faccia vivere queste stanze, che le consideri parte della contemporaneità… e poi anche un po’ di umiltà: siamo indulgenti!

E siamo indulgenti, anche se resta l’impressione che con tutta questa indulgenza si rischi di perdere il gusto dell’autorialità, dell’andare a caccia dell’intenzione e delle “regole d’ingaggio” pensate dall’autore per chi lo avesse incontrato… Ci viene in mente al riguardo proprio la definizione di neorealismo televisivo con cui lei etichettò la Rai3 di Angelo Guglielmi.

Perché?

Perché di nuovo, se pensiamo all’estensione del Sé che il web sta stimolando negli ultimi anni, con praticamente tutto il mondo occidentale in possesso di almeno due-tre avatar social, ci viene naturale provare ad applicare questa categoria anche al mondo delle app e delle piattaforme di condivisione dei contenuti.

Sì, la Rai3 guglielmina era simile a un pastiche neorealista, con una mimesi tipica del neorealismo in salsa televisiva.

 Nel definirla, però, lei rimarcava come gli attori presi dalla strada non interpretassero «se stessi, ma un copione» e che il regista era «un intellettuale che aiuta la classe operaia a esprimere meglio quei contenuti che comunque ha dentro di sé». In questi termini, possiamo pensare a mezzi come Facebook o Instagram come a un grande circolo di attori neorealisti senza regista, o meglio, registi di se stessi?

In un certo senso sì, anche se proprio questo aspetto mostra come la «tv-verità» pensata da Guglielmi sia un esperimento fallito, nel senso che si è visto che i veri eredi di quell’idea sono i protagonisti dei reality, con una curvatura del sistema, se possiamo dirlo, un po’ mercantile.

In questo senso lei vede un tradimento – in senso tecnico, non morale – dell’intenzione o l’esito mercantile è insito in questo tipo di operazione culturale?

Diciamo che nell’arte il tradimento è una risorsa. Uno a un certo punto si deve distaccare dalle forme precedenti per cui uno prende qualcosa e ne cambia il senso.

Ma per capirci, i tronisti di Maria De Filippi vengono da quella direzione, non da una “deviazione”?

Sì, è una cooptazione del pubblico in chiave populista per cui lo spettacolo è “uno di voi, uno come voi”. Che poi in realtà è “un po’ più” di voi, perché sta cercando di non essere voi. Resta sempre, insomma, la distanza tra l’oggetto e la sua rappresentazione, che è una tensione feconda, senza la quale non c’è spettacolo.

Ma se pensiamo alla rappresentazione di sé che ognuno di noi fa sui social, secondo lei sono più gli utenti consapevoli che sui social c’è una comprensibile rappresentazione di sé o quelli che credono di trovarvi la “verità”?

Terrei distinti due aspetti. Da un lato, che ciascuno di noi qualora debba fare un ritratto di profilo e abbia un neo sulla guancia sinistra si fa ritrarre dal lato opposto, mi sembra abbastanza legittimo. Questo per dire che è abbastanza ovvio che sui social si mostri preferibilmente quelli che si credono essere i propri aspetti positivi.
D’altro canto, nella sceneggiatura mediale ci sono delle arti, tecnicalità, esperienze, tradizioni… La grande novità è che ciò che era detenuto dalla corporazione di addetti ai lavori mediali adesso è alla portata anche della signora Cecioni, per cui abbiamo i social media che competono con i media senza che ci sia un’effettiva competenza nella rappresentazione. Esattamente come ci sono forze politiche di incompetenti che competono – anche con un certo successo, direi – con forme più consolidate di esperienza. Questo è un po’ il riflesso di un’era. Per cui il gusto del “fai-da-te”, del “non so nulla, ma ti puoi fidare di me”, è molto diffuso, anche su questioni capitali.

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